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Chi soffre di allergia è più a rischio Covid-19? La scienza dice di no

La ricerca si è basata sulle cartelle cliniche di circa 300 pazienti positivi e con malattie come rinite, asma, eczema. Il decorso e anche l’uso dell’ossigeno identico a quello dei soggetti non allergici.

Chi soffre di allergie è a più rischio Covid-19? Pare proprio di no. A dirlo è un team di ricerca dell’associazione American College of Allergy, Asthma and Immunology (ACAAI). Gli scienziati, coordinati da Dylan Timberlake, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato le cartelle cliniche di circa 300 pazienti ricoverati in ospedale e risultati positivi al coronavirus dopo il tampone rinofaringeo. «Durante il periodo di due mesi in cui abbiamo esaminato i grafici, abbiamo scoperto che la gravità della malattia non sembrava differire tra i pazienti Covid-19 con allergie, rispetto ai pazienti Covid-19 senza allergie», dichiara alla stampa l’autore principale della ricerca.

«Osservando i risultati per i pazienti basati su malattie allergiche come rinite allergica, asma, eczema e allergia alimentare, non abbiamo trovato differenze significative nel numero di interventi necessari per coloro che soffrono di allergie rispetto a quelli senza, quando si trattava di Covid-19», aggiunge il coautore dello studio e allergologo Mitchell Grayson. Per interventi l’esperto si riferisce alla necessità di ossigeno supplementare, ricovero in unità di terapia intensiva, durata dell’intubazione e così via. «Per esempio, per quanto riguarda il ricovero in terapia intensiva, il 43 per cento di quelli con malattia allergica sono stati ammessi contro il 45 per cento dei pazienti senza. E il 79 per cento di quelli con allergia aveva bisogno di ossigeno supplementare contro il 74 per cento di quelli senza», dichiara Grayson. Poiché molti pazienti con allergia soffrivano anche di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), una patologia notoriamente associata a una maggior rischio per Covid-19, gli scienziati ne hanno tenuto conto durante la valutazione statistica.

C’è chi è fiducioso: «C’è un vaccino efficace che ci fa vedere una luca in fondo al tunnel»

Il virologo Burioni torna da Fazio a Che tempo che fa: «È arrivato il momento di spiegarvi come funziona questo vaccino e di spiegarvi cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi»

I dati sono drammatici ma le speranze di metterci tutto alle spalle crescono: «Vediamo una luce in fondo al tunnel».

Roberto Burioni torna in TV, nel salotto di Che tempo che fa, per parlare delle ultime notizie relative al vaccino contro il coronavirus.

«Questa sera torno in TV a Che tempo che fa per dirvi quello che ho sperato di potervi dire dai primi di marzo: che ci sono dati provenienti da una fonte affidabile e da uno studio randomizzato in doppio cieco che indicano la disponibilità di un vaccino molto efficace.

È arrivato il momento di spiegarvi come funziona questo vaccino e di spiegarvi cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi, perché adesso possiamo cominciare davvero a parlare di date e vediamo una luce in fondo a questo terribile tunnel.»

Per il resto, chi alimenta il panico si comporta in maniera sbagliata. Ma chi da mesi vi racconta falsi complotti o bugie tranquillizzanti è come minimo un irresponsabile», dice il virologo in un post su Facebook.

Burioni, presenza costante accanto a Fabio Fazio nella prima fase della pandemia, da maggio è sostanzialmente in silenzio stampa televisivo. Nella nuova stagione di Che tempo che fa, il virologo ha partecipato alla trasmissione solo nella puntata in cui è stato presente, in collegamento, il professor Anthony Fauci.

Intanto la sperimentazione del vaccino di Pfizer continua: effetti collaterali raccontati dai volontari

Come una sbornia, un po’ di febbre e dolori: così spiegano gli effetti collaterali i volontari che si sono sottoposti al test ma che non hanno certezza di aver ricevuto o l’antidoto o il placebo.

«Dolori, fatica, mal di testa da sbornia» così alcuni volontari che si sono sottoposti al vaccino anti-covid prodotto dalla casa farmaceutica statunitense Pfizer in collaborazione con l’azienda tedesca BioNTech, hanno descritto i sintomi post antidoto. Sia chiaro che lo studio clinico del vaccino Pfizer (come per gli altri antidoti) è in doppio cieco, cioè i partecipanti ai test non hanno idea se gli è stato iniettata una sostanza placebo o il vero vaccino, ma alcuni dei volontari che hanno partecipano alla sperimentazione riferiscono di aver sofferto di effetti collaterali dopo l’inoculazione e credono di aver ricevuto la dose effettiva dell’antidoto.

Pfizer dal suo canto ha confermato che BNT162, questo il nome del vaccino in sperimentazione, non ha fatto registrare effetti avversi gravi nei partecipanti, circa 43.000 persone a cui è stato somministrato. Nel precedente studio sono stati rilevati soltanto febbre e dolore nel sito dell’iniezione, effetti collaterali comuni per qualunque vaccino, anche quello che ogni anno si fa contro l’influenza.

La momentanea sbornia dopo il vaccino non è certo paragonabile a quella fatica che assilla il 50% dei guariti e che non se ne va per mesi. Le conseguenze a lungo termine della Covid-19 non sono ancora perfettamente comprese dagli scienziati, trattandosi di una nuova patologia, tuttavia col passare del tempo vengono individuati sempre più segni e sintomi legati al contagio.

Gli scienziati hanno individuato una vera e propria condizione chiamata “sindrome del Covid lungo” o Long Covid, come dimostrato da uno studio guidato da scienziati del King’s College di Londra, caratterizzata da strascichi che si protraggono per mesi dopo la guarigione. Tra le manifestazioni della Long Covid vi è un affaticamento persistente, che può essere equiparato a una sindrome da fatica cronica post-virale o alla fatigue di chi è in cura per un tumore. Un nuovo studio ha rilevato questo sintomo nel 50 per cento dei pazienti coinvolti a diverse settimane dal superamento dell’infezione.

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