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I Vigili del Fuoco lavorarono per giorni salvando centinaia di persone nelle campagne invase in pochi istanti da otto miliardi di metri cubi di acqua.

Il 14 novembre di 69 anni fa uno degli eventi più drammatici del dopoguerra italiano, l’alluvione del Polesine. Un evento catastrofico che colpì gran parte del territorio della provincia di Rovigo e parte di quello della provincia di Venezia (Cavarzerano), causando circa cento vittime e più di 180.000 senzatetto, con molte conseguenze sociali ed economiche.

Alle ore 19:45 del 14 novembre, l’argine maestro del fiume Po ruppe a Vallone di Paviole, in Comune di Canaro. Alle ore 20:00 si verificò una seconda rotta in località Bosco in comune di Occhiobello. La terza falla si produsse poco più tardi, alle ore 20:15 circa, in località Malcantone dello stesso comune. La massa d’acqua che si riversò con furia sconvolgente sulle terre del Polesine fu immane. Si calcola che la portata complessiva delle rotte sia stata dell’ordine dei 7.000 m³/s (6.000 m³/s secondo alcune stime, più di 9.500 m³/s secondo altre) a fronte di una portata massima complessiva del fiume stimata in quell’occasione in circa 12.800 m³/s.

Durante le due settimane precedenti all’alluvione, si verificarono intense precipitazioni distribuite su tutto il bacino imbrifero del fiume Po. Nei giorni del 12, 13 e nelle prime ore del 14 novembre l’onda di piena transitava nel mantovano senza il verificarsi di irreparabili esondazioni grazie anche alla tempestiva e massiccia realizzazione di interventi di contenimento, durante il passaggio della stessa tra le province di Ferrara, a sud, e Rovigo, a nord, avvenne l’irreparabile disastro.

Già nelle prime ore del giorno 14 novembre, il colmo di piena iniziava ad interessare l’Alto Polesine. Gli abitanti di Melara, Bergantino, Castelnovo Bariano, Castelmassa, Calto e degli altri centri rivieraschi iniziavano una corsa contro il tempo nel tentativo di contenere le acque del fiume all’interno dei propri argini. Guidate dai propri sindaci in prima persona, sotto il coordinamento di tecnici locali, queste popolazioni intraprendevano un’immane opera di sovralzo delle sommità arginali mediante la costruzione di coronelle e soprassogli. Solo lo spirito di abnegazione e la consapevolezza che dalla riuscita o meno dei loro sforzi dipendevano le sorti del territorio, comprese quelle delle loro stesse case e terreni, ha fatto sì che il livello delle acque fosse contenuto dalle suddette opere tumultuarie.

L’operato di queste genti risulta tanto più stoico in considerazione del fatto che le dette opere di contenimento furono realizzate in condizioni particolarmente difficili. Vi era infatti carenza di uomini, materiali (con grande penuria dei sacchi necessari per il riempimento in terra e la formazione dei rialzi arginali) e di mezzi, in quanto non vi era ovviamente disponibilità di mezzi meccanici quali escavatori, bulldozer e autocarri e si operava con semplici attrezzi manuali, spesso portati da casa.

Ebbe quindi inizio una catastrofe di enormi proporzioni le cui ripercussioni si riflettono sino ai nostri giorni, segnando per sempre la storia del Polesine. Fu essa infatti, per estensione delle terre allagate e per volumi d’acqua esondati, la più grande alluvione a colpire l’Italia in epoca contemporanea.

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